Introduzione
di Stelvio Di Spigno
Mi sono chiesto spesso quale ruolo abbiano avuto le avanguardie degli anni ’60 del Novecento nel ridurre le arti coinvolte dai loro impulsi (musica, letteratura, arti visive su tutte) allo stato larvale in cui versano oggi. La risposta non è scontata e se si vuole ragionare in modo sinottico, si potrebbe dire che gli eccessi che hanno reso la musica colta inascoltabile, la letteratura un’orgia di dilettantismo algoritmico e le arti visive un incubo a occhi aperti non sono stati altro che una presa di coscienza collettiva che l’arte, nelle sue varie manifestazioni, non poteva sopravvivere in un mondo dove la cultura era stata dilaniata dalla scoperta dei lager nazisti e il consumismo aveva reso tutto a misura di target e di marketing. Gli avanguardisti di cinquanta o sessanta anni fa non hanno fatto altro che rendere palese questa condizione di impossibilità, nella quale ciò che rimane del sapere e del bello possono darsi solo come rimasuglio, estremo rigurgito di sopravvivenza, scheggia impazzita.
Ed è appunto di due poeti estremi e a loro modo “folli” che questo nuovo libro della collana «Poesia di ricerca» vuole dare una campionatura quanto più esaustiva possibile: Manuel de Freitas e Federica Gullotta. Il primo, portoghese nato nel 1972, ha all’attivo un enorme numero di raccol¬te poetiche di varia ampiezza e natura, antologie, pamphlet, articoli e saggi che ne attestano l’ai¬tante vena di polemista e di letterato militante. L’altra, italiana e nata nel 1991, pubblica qui i primi versi dopo il folgorante esordio de La bestia viziata, avvenuto nel 2016 nella collana diretta da Mary B. Tolusso. A cadenzare il volume ci sono tre opere inedite di Davide Mansueto Raggio, un importante rappresentante dell’Outsider Art, amico di Claudio Costa e scomparso nel 2002.
Manuel de Freitas colpisce a prima vista una capacità rarissima nei poeti di oggi, quella di saper essere tagliente e insieme debordante, ricolmo di ragioni e tematiche che sembrano voler dar conto di tutta la realtà che lo circonda, ma appunto con un’economia di mezzi da fare invidia a tanti suoi colleghi e coetanei, oltre a costituire una sorta di unicum nella scena letteraria portoghese. A guar¬dare meglio, quelle stesse ragioni sono una sorta di visionaria presa d’atto della nostra mortalità, della disperazione che trae origine da un’ancestrale ferita ontologica che logora e rende fragili e irrazionali i comportamenti umani, senza giudizio, ma con una reazione, e direi quasi una lancinante ribellione alla caducità della condizione antropica e all’inospitalità dell’esistente, che si estrinseca interamente nello stile, nella poderosa dinamica delle sue strofe larghe e cadenzate e in una ele¬ganza del dettato estenuante (per chi scrive) ma assolutamente gioiosa e perfino gaudente (per noi che leggiamo).
Gullotta, invece, come se si fosse cibata di decine di poeti, cannibalizza ogni spazio di solidale e urbana condivisione, partendo dall’assunto, mai ripetuto abbastanza, che in poesia (come nella tragedia) ciò che conta è già avvenuto, e allora ci si assume la responsabilità di nominare tutto il marcio che è rimasto nell’universo con parole solide, avventurose, dure e appuntite più che si possa, rischiando di essere disturbanti, politicamente scorretti, addirittura immorali, se il caso lo richiede. E nel caso della giovane poetessa faentina il caso lo richiede eccome. Quando si ha il talento di comprendere che l’espressione è sempre suprema finzione, anche se si porge al lettore come un’invettiva diretta e mirata proprio a lui (si tratta di un talento che non ci si può procurare, lo si ha oppure no), e che anche la più inusitata concrezione verbale, una volta scritta, diventa (e rimane) frutto di un perpetuo artificio, lo spazio che si apre alla creatività del singolo individuo è sterminato. Come Manuel de Freitas, Federica Gullotta misura parola per parola la propria protesta e il proprio disincanto. Diversamente da lui, lo spazio metrico è totalmente evaporato, e la libertà strutturale si fa anch’essa provocatoria e belligerante. Entrambi sono poeti che richiedono stomaco forte e orecchio fino, entrambi stanno dalla parte giusta del bunker della poesia, quella che vuole ancora stupire e inquietare, dimostrando che il valore, in arte, non è mai valore aggiunto, come si potrebbe credere guardando al panorama italiano, ma la sola reale motivazione per cui si scrive, si fa musica o cinema o un vernissage. La scrittura come atto notarile di piccoli uomini che credono di potere (e quindi dovere) preservare latifondi o rendite di posizione, sempre attestandosi su un’ottusa mediocrità, non interessa più a nessuno.
E infatti, dubbi qui non ce ne sono. Manuel de Freitas e Federica Gullotta sono due talenti maturi e completi, e senza ulteriori parafrasi, accostiamoci ai loro versi perturbanti e indisciplinati, sperando che passino un po’ della loro insubordinazione spirituale a tutti noi che abbiamo la fortuna di apprezzarli in questo agile libro che aggiunge un altro importante capitolo alle mirabilie della collana. Pochi e fedeli amanti di ciò che è raro e vero, anzi, di ciò che è rarissimo proprio perché senza trucchi né mascheroni, fatevi avanti: c’è della poesia vera che vi aspetta.
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Leggi su LaRecherche.it la recensione di Gian Piero Stefanoni &raqup;
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Autore:
M. de Freitas - F. Gullotta
Poesia (Traduzioni)
Traduttore: Roberto Maggiani
Lingua: italiano
Formato: copertina flessibile
Dimensioni: 110x170 mm
pp. 80
Anno di edizione: 2019
Edb Edizioni
ISBN: 9788899887285
10,00 €